In serata negli ampi e spaziosi locali del Club Abruzzo, la delegazione italiana ha partecipato ai lavori del congresso dell’Associazione nazionale famiglie emigranti ANFE, che festeggia quest’anno il sessantesimo anniversario di fondazione e il quarantacinquesimo di presenza in Australia. Di fronte ai 150 delegati provenienti da tutta l’Australia e numerosi ospiti del posto, la delegazione italiana ha avuto modo così di presentarsi e di illustrare le finalità della propria visita in Australia, assieme ad un’ulteriore presentazione del rapporto degli italiani nel mondo. Vi ha provveduto dapprima il Vescovo Bonicelli, il quale nel benedire la mensa ha trovato l’occasione di pronunciare parole appropriate per la circostanza, attraverso le quali ha sottolineato l’impegno della Chiesa italiana per il mondo dell’emigrazione, assieme all’invito a non smarrire i valori della cristianità, fondamentali per assicurare all’umanità intera condizioni di vita che siano rispettose della dignità umana, minacciata da un allontanamento dalla fede cristiana. Don Locatelli ha quindi parlato dell’attenzione che la Chiesa italiana continua di rivolgere agli emigranti e ha anche accennato al problema delle nuove migrazioni, che vedono ogni anno partire decine di migliaia di giovani qualificati per andare a lavorare all’estero in condizioni certamente meno svantaggiate di quelle delle passate generazioni di emigranti. Ha poi illustrato il secondo rapporto italiani nel mondo, sottolineando lo sforzo della Migrantes, che si è avvalsa di un comitato promotore composta da Acli, Inas-cisl, Mcl e missionari scalabriniani, nel comprendere ed aiutare a comprendere il fenomeno dell’emigrazione, la ricchezza di valori e di significati che la stessa rappresenta nell’interesse di tutta la nazione. Luigi Papais, a nome dell’Ucemi (Unione cristiana enti migranti italiani) ha ribadito nuovamente l’importanza del ruolo delle associazioni che operano nel settore dell’emigrazione, una rete che consente di mantenere contatti sia con gli emigranti del paese di partenza e di arrivo e con la patria natia. L’associazionismo, ha ribadito, è uno strumento ancora indispensabile per non disperdere quel grande patrimonio umano che era presente in tanti sodalizi che mantengono uniti di emigranti tra di loro. Esso va comunque aperto ancor di più ai giovani che, come confermano le statistiche, a partire dalla terza generazione riacquistano la consapevolezza di quanto sia importante riscoprire le proprie radici e di mantenere con forme nuove ed inedite contatti con quanti vivono nella terra dalla quale sono partiti i loro genitori o nonni. Ci sono nuove forme di comunicazione, come Internet, posta elettronica, chat, ecc. che possono consentire comunque l’assolvimento di queste esigenze, soprattutto a carattere culturale. Anche Don Nicolò Anselmi ha intrattenuto brevemente i pazienti ospiti, che hanno creato per noi una preziosa occasione di presentazione delle nostre iniziative, parlando della GMG e della necessità che le famiglie di origine italiana aprano le porte delle loro case e si mettano a disposizione dei nostri giovani, per consentire uno scambio culturale e spirituale, utile anche per il futuro delle associazioni.
venerdì 12 ottobre 2007
My home My History
Brisbane mostra fotografica
Una mostra introspettiva e prospettica allo stesso tempo.
“Quello che noi siamo oggi è quanto siamo riusciti a fare insieme”. E’ il motto che guida una interessante mostra di disegni e fotografie che sono il risultato di un progetto condiviso da pittori, artisti e fotografi circa l’anima e le attese di una persona che si è sradicata da un contesto sociale per inserirsi in un altro come l’emigrante.
L’ispirazione è venuta infatti dalla constatazione del fenomeno dell’immigrazione italiana in Australia.
360 mila persone dal 1947 al 1976, “l’aspetto umano - recita la guida-di uno dei più significativi e riusciti esempi di riuscita immigrazione nella storia postcoloniale dell’Australia.
Il titolo della mostra è del resto eloquente:”la mia casa, la mia storia”.
Gli espositori – Su zanne Soopy, David Lloyd e Angela Blebely- hanno visto in questa immigrazione italiana l’inizio di una unica forma di multiculturalismo a partire dalla casa come luogo di ricordi del passato nel suo ornamento, nei mobili e fotografie e quant’altro ma, al tempo stesso, impostazione di culturale negoziazione con il presente della nuova residenza diversa nell’architettura e nelle suppellettili.
I valori “australiani” di individualismo e prosperità si sposano con la tradizione italiana di comunità e di solidale autorealizzazione.
Con questo, gli artisti vogliono espressamente opporsi ad una chiusura ideologica degli integralisti australiani dei primi tempi, espressa da un romanzo del 1957 di Nino Culotta (pseudonimo di un comico locale John O’Grady) che scrive in un passaggio: “Ci sono troppi nuovi australiani “che ancora vivono mentalmente nel loro paese, che fanno un tutt’uno con gente della propria nazionalità e tentano di mantenere la propria lingua e le proprie abitudini. Che,anzi, tentono di persuadere gli australiani di adottare i loro costumi ed il loro comportamento. Tagliamo corto. Non cè miglior modo di vivere nel mondo di quello australiano”.
Una mostra introspettiva e prospettica allo stesso tempo.
“Quello che noi siamo oggi è quanto siamo riusciti a fare insieme”. E’ il motto che guida una interessante mostra di disegni e fotografie che sono il risultato di un progetto condiviso da pittori, artisti e fotografi circa l’anima e le attese di una persona che si è sradicata da un contesto sociale per inserirsi in un altro come l’emigrante.
L’ispirazione è venuta infatti dalla constatazione del fenomeno dell’immigrazione italiana in Australia.
360 mila persone dal 1947 al 1976, “l’aspetto umano - recita la guida-di uno dei più significativi e riusciti esempi di riuscita immigrazione nella storia postcoloniale dell’Australia.
Il titolo della mostra è del resto eloquente:”la mia casa, la mia storia”.
Gli espositori – Su zanne Soopy, David Lloyd e Angela Blebely- hanno visto in questa immigrazione italiana l’inizio di una unica forma di multiculturalismo a partire dalla casa come luogo di ricordi del passato nel suo ornamento, nei mobili e fotografie e quant’altro ma, al tempo stesso, impostazione di culturale negoziazione con il presente della nuova residenza diversa nell’architettura e nelle suppellettili.
I valori “australiani” di individualismo e prosperità si sposano con la tradizione italiana di comunità e di solidale autorealizzazione.
Con questo, gli artisti vogliono espressamente opporsi ad una chiusura ideologica degli integralisti australiani dei primi tempi, espressa da un romanzo del 1957 di Nino Culotta (pseudonimo di un comico locale John O’Grady) che scrive in un passaggio: “Ci sono troppi nuovi australiani “che ancora vivono mentalmente nel loro paese, che fanno un tutt’uno con gente della propria nazionalità e tentano di mantenere la propria lingua e le proprie abitudini. Che,anzi, tentono di persuadere gli australiani di adottare i loro costumi ed il loro comportamento. Tagliamo corto. Non cè miglior modo di vivere nel mondo di quello australiano”.
ANFE : un’associazione per le famiglie dei migranti
Si deve alla On.le Maria Federici, professoressa di lettere, sposa e madre, formata e militante in Azione Cattolica, deputata DC al Parlamento già fin dalla fase costituente, la constatazione e/o intuizione che le Migrazioni sono un fenomeno sociale sostanzialmente e principalmente di natura familiare sia che emigri un solo componente o l’intera famiglia.
Per questo motivo nel 1947 fonda un’apposita associazione: l’ANFE ossia Associazione Nazionale delle Famiglie degli Emigranti.
Ne consegue il grande interesse che l’ANFE ha avuto per i ricongiungimenti familiari, per le “vedove bianche” cioè le spose in Italia dei capifamiglia emigrati, per gli “orfani della frontiera”, i figli di emigrati messi in collegi possibilmente ai confini nazionali per facilitare le visite (Domodossola, Veneto), per le ragazze “au pair” che andavano sole, e, spesso indifese, presso famiglie, specialmente in Inghilterra.
Si partiva sempre da una considerazione economica (l’operaio) e si puntava sulla condizione di cittadino (la persona), lo stato normale ed appagante era sempre l’unità e l’armonia del nucleo di base (la famiglia).
Oggi che la famiglia sta subendo grossi mutamenti al suo interno e forti pressioni spesso disgreganti dall’esterno ad opera di gruppi ideologici, appare con maggior evidenza la giustezza ed efficacia di una tale visione e l’opportunità di una simile prospettiva.
In questo anno, quando l’ANFE festeggia il suo 60° di fondazione, è importante fermarsi a riflettere su quella scelta fondamentale per confermare la validità ed aggiornarne le strategie.
Le politiche familiari sono infatti spesso indecise quando non mortificanti nei loro interventi, anzi si mostrano addirittura indifferenti sul “tipo” di famiglia da sostenere, mettendo in seria difficoltà natura e stabilità dell’unione di uomo e donna fondata sul matrimonio.
L’immigrazione sempre più numerosa e culturalmente diversificata accentua la necessità di chiarezza e di sostegno alla famiglia, prima e fondamentale cellula della società civile e base di quella religiosa.
Giustamente anche la sezione ANFE australiana, fondata nel 1962 da Giovanni Caruso che ne è stato il primo presidente ed ora ne è il delegato nazionale, ha convocato 150 delegati da tutte le città australiane per celebrare il 45° anno di vita, ma ancor più per una verifica ed un rinnovamento, anche di cariche sociali.
L’augurio della Fondazione Migrantes, presente con una qualificata delegazione: il già presidente della commissione episcopale per gli emigrati Mons. Gaetano Bonicelli, il già direttore nazionale ed attuale responsabile della stampa Migrantes Mons. Silvano Ridolfi, l’attuale direttore per gli italiani all’estero don Domenico Locatelli, il vice-presidente UCEMI (unione cristiana enti per i migranti italiani) dott. Luigi Papais, che sta seguendo in Sydney e sostenendo la prossima “Giornata mondiale della gioventù” (luglio 2008), è spontaneo e cordiale per un successo che è beneficio di tutta la comunità sia italiana che australiana.
Per questo motivo nel 1947 fonda un’apposita associazione: l’ANFE ossia Associazione Nazionale delle Famiglie degli Emigranti.
Ne consegue il grande interesse che l’ANFE ha avuto per i ricongiungimenti familiari, per le “vedove bianche” cioè le spose in Italia dei capifamiglia emigrati, per gli “orfani della frontiera”, i figli di emigrati messi in collegi possibilmente ai confini nazionali per facilitare le visite (Domodossola, Veneto), per le ragazze “au pair” che andavano sole, e, spesso indifese, presso famiglie, specialmente in Inghilterra.
Si partiva sempre da una considerazione economica (l’operaio) e si puntava sulla condizione di cittadino (la persona), lo stato normale ed appagante era sempre l’unità e l’armonia del nucleo di base (la famiglia).
Oggi che la famiglia sta subendo grossi mutamenti al suo interno e forti pressioni spesso disgreganti dall’esterno ad opera di gruppi ideologici, appare con maggior evidenza la giustezza ed efficacia di una tale visione e l’opportunità di una simile prospettiva.
In questo anno, quando l’ANFE festeggia il suo 60° di fondazione, è importante fermarsi a riflettere su quella scelta fondamentale per confermare la validità ed aggiornarne le strategie.
Le politiche familiari sono infatti spesso indecise quando non mortificanti nei loro interventi, anzi si mostrano addirittura indifferenti sul “tipo” di famiglia da sostenere, mettendo in seria difficoltà natura e stabilità dell’unione di uomo e donna fondata sul matrimonio.
L’immigrazione sempre più numerosa e culturalmente diversificata accentua la necessità di chiarezza e di sostegno alla famiglia, prima e fondamentale cellula della società civile e base di quella religiosa.
Giustamente anche la sezione ANFE australiana, fondata nel 1962 da Giovanni Caruso che ne è stato il primo presidente ed ora ne è il delegato nazionale, ha convocato 150 delegati da tutte le città australiane per celebrare il 45° anno di vita, ma ancor più per una verifica ed un rinnovamento, anche di cariche sociali.
L’augurio della Fondazione Migrantes, presente con una qualificata delegazione: il già presidente della commissione episcopale per gli emigrati Mons. Gaetano Bonicelli, il già direttore nazionale ed attuale responsabile della stampa Migrantes Mons. Silvano Ridolfi, l’attuale direttore per gli italiani all’estero don Domenico Locatelli, il vice-presidente UCEMI (unione cristiana enti per i migranti italiani) dott. Luigi Papais, che sta seguendo in Sydney e sostenendo la prossima “Giornata mondiale della gioventù” (luglio 2008), è spontaneo e cordiale per un successo che è beneficio di tutta la comunità sia italiana che australiana.
Mons. John Alexius Bathersby
Incontro con Mons. John Alexius Bathersby arcivescovo di Brisbane
L’ultimo giorno trascorso a Brisbane è stato dedicato all’incontro con l’arcivescovo titolare della Diocesi di Brisbane.
S.E. mons. John Alexius Bathersby, 71 anni e un po’ sofferente per una fastidiosa artrosi ha accolto con grande cordialità la piccola delegazione. Guidata da S.E. Mons. Gaetano Bonicelli per 10 anni presidente della Commissione episcopale per le migrazione in Italia la delegazione era composta intieramente da sacerdoti: Mons. Silvano Ridolfi, don Domenico Locatelli, don Nicolò Anselmi e padre Mauro Conte responsabile della comunità scalabriniana locale. Le informazioni scambiate hanno toccati temi di interesse comune: il mondo delle migrazioni, i nuovi gruppi cattolici insediatisi nello stato del Queensland, la prima comunità rappresentata dagli italiani che sono sempre bene inseriti. La percentuale dei cattolici si attesta al 23,6% pari a 622.000 cattolici su una popolazione residente di 2.626.000 e lavora per ben costruire parrocchie territoriali capaci di offrire i servizi religiosi richiesti.
I gruppi più dinamici sono quelli provenienti dall’oriente, filippini, indiani del Kerala, vietnamiti. L’attenzione della diocesi è centrata soprattutto sui giovani, anche sulla spinta delle prossime Giornate mondiali della gioventù.
La diocesi di Brisbane conta 156 preti diocesani, 96 religiosi e 6 diaconi permanenti. Sono presenti 736 religiose e la pastorale ruota attorno a 109 parrocchie.
I responsabili della pastorale giovanile hanno avuto un colloquio anche con i vescovi ausiliari Mons. Joseph oudeman e Mons. Vincent Finnigan, incaricato per la diocesi di Brisbane per la partecipazione alla WYD.
L’ultimo giorno trascorso a Brisbane è stato dedicato all’incontro con l’arcivescovo titolare della Diocesi di Brisbane.
S.E. mons. John Alexius Bathersby, 71 anni e un po’ sofferente per una fastidiosa artrosi ha accolto con grande cordialità la piccola delegazione. Guidata da S.E. Mons. Gaetano Bonicelli per 10 anni presidente della Commissione episcopale per le migrazione in Italia la delegazione era composta intieramente da sacerdoti: Mons. Silvano Ridolfi, don Domenico Locatelli, don Nicolò Anselmi e padre Mauro Conte responsabile della comunità scalabriniana locale. Le informazioni scambiate hanno toccati temi di interesse comune: il mondo delle migrazioni, i nuovi gruppi cattolici insediatisi nello stato del Queensland, la prima comunità rappresentata dagli italiani che sono sempre bene inseriti. La percentuale dei cattolici si attesta al 23,6% pari a 622.000 cattolici su una popolazione residente di 2.626.000 e lavora per ben costruire parrocchie territoriali capaci di offrire i servizi religiosi richiesti.
I gruppi più dinamici sono quelli provenienti dall’oriente, filippini, indiani del Kerala, vietnamiti. L’attenzione della diocesi è centrata soprattutto sui giovani, anche sulla spinta delle prossime Giornate mondiali della gioventù.
La diocesi di Brisbane conta 156 preti diocesani, 96 religiosi e 6 diaconi permanenti. Sono presenti 736 religiose e la pastorale ruota attorno a 109 parrocchie.
I responsabili della pastorale giovanile hanno avuto un colloquio anche con i vescovi ausiliari Mons. Joseph oudeman e Mons. Vincent Finnigan, incaricato per la diocesi di Brisbane per la partecipazione alla WYD.
La Chiesa cattolica in Australia
La Chiesa Cattolica in Australia aveva un volto molto diverso cinquant’anni fa. Vi era un numero sufficiente di clero autoctono, e con esso un numero ragguardevole di sacerdoti di origine irlandese. Inoltre grazie alla presenza di opere di carattere sociale (ospedali, ospizi, case di cura o di riabilitazione), negli anni subito dopo la Guerra Mondiale anche grazie all’ apporto dei nuovi emigranti cattolici, era avvenuta un’enorme espansione del numero di parrocchie e di attrezzature parrocchiali. A Melbourne, l’ Arcivescovo Mannix, tra il 1945 ed il 1965 aveva aperto 70 nuove comunità parrocchiali. Il ritmo di espansione e di sviluppo era sostenuto dai contributi dei fedeli. Oltre alle numerose scuole cattoliche vi era una sottocultura religiosa rappresentata dalle numerose associazioni che raggruppavano varie categorie di operai, professionisti e giovani cattolici.
Cinquant’anni dopo la stessa Chiesa Cattolica appare profondamente trasformata. Si traccia un bilancio preoccupante, sottolineando gli aspetti più macroscopici: l’abbandono del loro status sacerdotale o religioso di molti sacerdoti o consacrati; la chiusura di case di formazione e di diversi seminari; la gestione delle scuole cattoliche affidata ai laici; la partecipazione alla Messa domenicale, che si avvicinava al 60% negli anni ’50, scesa al 14%; il senso di appartenenza alla Chiesa Cattolica per i cattolici, giovani famiglie e i giovani in generale, concepita al di fuori degli insegnamenti ufficiali; l’immissione di nuove culture cattoliche provenienti da moltissimi paesi diversi non recepita nella sua ricchezza pentecostale e infine, aggiunge Dixon, il ruolo della donna e del laicato che stenta a decollare.
Di fronte a questa profonda trasformazione dei quadri, funzionanti solo 50 anni fa, molti si chiedono quale sarà il futuro della Chiesa in Australia: l’immissione sempre più rapida di sacerdoti “stranieri”, l’emergenza, documentata da studi, a livello di senso di appartenenza e di adesione agli insegnamenti della Chiesa, da parte di comunità etniche soprattutto se provenienti dall’Asia e l’affermarsi di movimenti come il Cammino Neo-Catecumenale, il Movimento Carismatico, il Thomas Moore Center a Melbourne ed altri aprono varchi di speranza.
Il cattolicesimo australiano é stato sollecitato ad uscire dalla sua insularità e da una dipendenza pluridecennale dal modello irlandese. Con gli emigranti europei, anche gli emigrati italiani hanno partecipato, forse inconsapevolmente, ad un’opera di ampliamento degli orizzonti limitati esistenti all’interno della Chiesa Cattolica e ad un impegno che mirava, pur attraverso lentezze e rifiuti, a costruire una chiesa più aperta e più cattolica.
Non si vede ancora la fine di questo impegno. Anzi.
L’arrivo di numerosissimi altri gruppi, meno consistenti e con alle spalle una esperienza religiosa sofferta nei loro paesi (Vietnamiti, Ucraini, Polacchi, Sudanesi, Medio Oriente ecc...) può avere un effetto benefico su una società gaudente e secolarizzata come l’Australia e su una Chiesa che parla troppo spesso di crisi, di declino, di perdite reali e incontrovertibili, una Chiesa ustionata dalla scomparsa di un passato “glorioso” nella sua storia. Questo passato glorioso, però, non può essere considerato né l’unico modello di Chiesa possibile, né il più valido. Nel giardino di Dio, secondo l’immagine usata da una commissione anglicana, vi sono fiori che appassiscono, ma vi sono anche fiori che rinascono e con colori diversi.
Cinquant’anni dopo la stessa Chiesa Cattolica appare profondamente trasformata. Si traccia un bilancio preoccupante, sottolineando gli aspetti più macroscopici: l’abbandono del loro status sacerdotale o religioso di molti sacerdoti o consacrati; la chiusura di case di formazione e di diversi seminari; la gestione delle scuole cattoliche affidata ai laici; la partecipazione alla Messa domenicale, che si avvicinava al 60% negli anni ’50, scesa al 14%; il senso di appartenenza alla Chiesa Cattolica per i cattolici, giovani famiglie e i giovani in generale, concepita al di fuori degli insegnamenti ufficiali; l’immissione di nuove culture cattoliche provenienti da moltissimi paesi diversi non recepita nella sua ricchezza pentecostale e infine, aggiunge Dixon, il ruolo della donna e del laicato che stenta a decollare.
Di fronte a questa profonda trasformazione dei quadri, funzionanti solo 50 anni fa, molti si chiedono quale sarà il futuro della Chiesa in Australia: l’immissione sempre più rapida di sacerdoti “stranieri”, l’emergenza, documentata da studi, a livello di senso di appartenenza e di adesione agli insegnamenti della Chiesa, da parte di comunità etniche soprattutto se provenienti dall’Asia e l’affermarsi di movimenti come il Cammino Neo-Catecumenale, il Movimento Carismatico, il Thomas Moore Center a Melbourne ed altri aprono varchi di speranza.
Il cattolicesimo australiano é stato sollecitato ad uscire dalla sua insularità e da una dipendenza pluridecennale dal modello irlandese. Con gli emigranti europei, anche gli emigrati italiani hanno partecipato, forse inconsapevolmente, ad un’opera di ampliamento degli orizzonti limitati esistenti all’interno della Chiesa Cattolica e ad un impegno che mirava, pur attraverso lentezze e rifiuti, a costruire una chiesa più aperta e più cattolica.
Non si vede ancora la fine di questo impegno. Anzi.
L’arrivo di numerosissimi altri gruppi, meno consistenti e con alle spalle una esperienza religiosa sofferta nei loro paesi (Vietnamiti, Ucraini, Polacchi, Sudanesi, Medio Oriente ecc...) può avere un effetto benefico su una società gaudente e secolarizzata come l’Australia e su una Chiesa che parla troppo spesso di crisi, di declino, di perdite reali e incontrovertibili, una Chiesa ustionata dalla scomparsa di un passato “glorioso” nella sua storia. Questo passato glorioso, però, non può essere considerato né l’unico modello di Chiesa possibile, né il più valido. Nel giardino di Dio, secondo l’immagine usata da una commissione anglicana, vi sono fiori che appassiscono, ma vi sono anche fiori che rinascono e con colori diversi.
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