La chiesa cattolica in Australia è nata dagli irlandesi, in parte galeotti, in
parte liberi emigrati. La sua gerarchia e i suoi preti per molti decenni vennero inviati dall’Irlanda ed essi fondarono comunità “istituzionalmente solide, ortodosse e di spiccata identità irlandese” (A. Paganoni, Valiant struggles and benign neglect, CMS, New York, 2003, p. 239 ). “Forse vale la pena affermare che l’Australia era tanto strettamente e caparbiamente britannica quanto la sua chiesa era strettamente e caparbiamente irlandese”, motivo per cui “l’arrivo di tanti immigrati di lingua diversa dall’inglese, trovò la Chiesa largamente impreparata. Bisognava trovare la soluzione per integrarli, con il processo dell’assimilazione” (A. Paganoni, ibid., p. 239). Tuttavia la chiesa ha dovuto amaramente prendere atto che i cattolici italiani non erano assimilabili e che non venivano in realtà a duplicare e triplicare il numero dei fedeli delle esistenti comunità parrocchiali e tanto meno ad aumentare l’influenza della popolazione cattolica nelle questioni australiane. Gli italiani, da parte loro, si sentivano estranei, guardati alla stregua di pagani, nonostante provenissero dalla terra dei Papi. La gerarchia cattolica si trovava così tra due fuochi: tra la necessità di non perdere i cattolici italiani e l’opportunità di non annacquare l’identità irlandese della chiesa cattolica australiana. C’erano certamente dei solenni documenti pontifici (primi fra i quali la Costituzione Apostolica Exul Familia di Pio XII, 1952 e il Motu Proprio di Paolo VI De Pastorali Migratorum Cura, 1969) che avrebbero dovuto guidare la
gerarchia australiana, ma essa non era così ben disposta a seguirli interamente. Chiamare preti italiani era possibile, e lo fece, ma si trovò subito piuttosto ingarbugliata nell’inventare la pastorale adatta per gli italiani, il metodo di applicazione di questa pastorale e l’accordo con i missionari degli emigrati e, talvolta, con i laici. La paura o, per meglio dire, il terrore delle parrocchie nazionali sul modello statunitense, che avrebbero potuto incunearsi nella rigidità delle incolori parrocchie irlandesi, ebbe il maggior peso nella scelta pratica di provvedimenti giuridici e pastorali che i vescovi avrebbero alla fine dovuto prendere. “Dopo un breve tentativo di introdurre in diocesi qualche sacerdote per gli emigrati che da una qualsiasi canonica australiana organizzasse un’assistenza il più attiva possibile usando varie parrocchie territoriali, si passò, per gli italiani almeno, a uno schema più realistico ed efficace: dare la completa e tradizionale amministrazione di parrocchie territoriali ad alcuni di questi missionari, Entro lo schema di parrocchie territoriali “de jure” e nazionali “de facto”, alcune di esse sono divenute famose soprattutto per l’impegno sostenuto dall’Ordine dei Cappuccini e dalla Congregazione Scalabriniana, accreditata questa seconda anche di spettacolari interventi nell’assistenza degli italiani anziani fino al momento di andare oltre la linea di confine della vita. Quanti italiani avrebbero lasciato la religione cattolica senza l’aiuto dei sacerdoti italiani non si può certo stabilire, anche perché bisogna tenere in massimo conto la differenza tra fede e pratica esterna della religione. Ad ogni buon conto, l’importante è che essi sono ormai parte viva dei circa 6 milioni di cattolici che costituiscono oggi la Chiesa australiana. La maggior parte non è praticante, tuttavia nei censimenti, alla voce “religione di appartenenza” risponde “cattolica romana”.
Rapporto Migrantes Italiani nel mondo 2007 a cura di A. Lorigiola
Nessun commento:
Posta un commento