venerdì 19 ottobre 2007

Gli Italiani nella Chiesa Australiana

Gli italiani nella chiesa cattolica australiana
La chiesa cattolica in Australia è nata dagli irlandesi, in parte galeotti, in parte liberi emigrati. La sua gerarchia e i suoi preti per molti decenni vennero inviati dall’Irlanda ed essi fondarono comunità “istituzionalmente solide, ortodosse e di spiccata identità irlandese” (A. Paganoni, Valiant struggles and benign neglect, CMS, New York, 2003, p. 239 ). “Forse vale la pena affermare che l’Australia era tanto strettamente e caparbiamente britannica quanto la sua chiesa era strettamente e caparbiamente irlandese”, motivo per cui “l’arrivo di tanti immigrati di lingua diversa dall’inglese, trovò la Chiesa largamente impreparata. Bisognava trovare la soluzione per integrarli, con il processo dell’assimilazione” (A. Paganoni, ibid., p. 239). Tuttavia la chiesa ha dovuto amaramente prendere atto che i cattolici italiani non erano assimilabili e che non venivano in realtà a duplicare e triplicare il numero dei fedeli delle esistenti comunità parrocchiali e tanto meno ad aumentare l’influenza della popolazione cattolica nelle questioni australiane. Gli italiani, da parte loro, si sentivano estranei, guardati alla stregua di pagani, nonostante provenissero dalla terra dei Papi. La gerarchia cattolica si trovava così tra due fuochi: tra la necessità di non perdere i cattolici italiani e l’opportunità di non annacquare l’identità irlandese della chiesa cattolica australiana. C’erano certamente dei solenni documenti pontifici (primi fra i quali la Costituzione Apostolica Exul Familia di Pio XII, 1952 e il Motu Proprio di Paolo VI De Pastorali Migratorum Cura, 1969) che avrebbero dovuto guidare la gerarchia australiana, ma essa non era così ben disposta a seguirli interamente. Chiamare preti italiani era possibile, e lo fece, ma si trovò subito piuttosto ingarbugliata nell’inventare la pastorale adatta per gli italiani, il metodo di applicazione di questa pastorale e l’accordo con i missionari degli emigrati e, talvolta, con i laici. La paura o, per meglio dire, il terrore delle parrocchie nazionali sul modello statunitense, che avrebbero potuto incunearsi nella rigidità delle incolori parrocchie irlandesi, ebbe il maggior peso nella scelta pratica di provvedimenti giuridici e pastorali che i vescovi avrebbero alla fine dovuto prendere. “Dopo un breve tentativo di introdurre in diocesi qualche sacerdote per gli emigrati che da una qualsiasi canonica australiana organizzasse un’assistenza il più attiva possibile usando varie parrocchie territoriali, si passò, per gli italiani almeno, a uno schema più realistico ed efficace: dare la completa e tradizionale amministrazione di parrocchie territoriali ad alcuni di questi missionari, con la clausola chiara e pubblica di estendere da qualsiasi sede fissa e indipendente, il proprio ministero anche agli italiani residenti in altre parrocchie (…). Il beneficio maggiore di questo schema era di costringere il missionario italiano ad una piena riuscita nella parrocchia territoriale e a un impegno di emulazione con le altre parrocchie in modo da giustificare la sua presenza sotto ogni aspetto: linguistico, amministrativo e pastorale (A. Lorigiola, Parrocchie Nazionali e Parrocchie Territoriali, esperimento di fusione in Australia, in Collana “Sussidi”- 1, Problemi di storia, sociologia e pastorale dell’emigrazione, CSER, 1965, p. 130). La parrocchia territoriale, gestita da un parroco straniero, possibilmente con uno o più assistenti altrettanto stranieri, diveniva gradualmente un centro di attrazione per tutti gli italiani dei dintorni, dove trovavano ogni tipo di assistenza, compresa quella sociale, della quale avevano più necessità del pane quotidiano. Qui arrivavano da altre parrocchie inviti per messe in lingua italiana, confessioni periodiche, matrimoni, funerali, missioni annuali, tridui, feste patronali, così da rendere questa parrocchia un centro di irradiazione pastorale intenso. Da qui potevano partire anche iniziative dirette a una seria e precisa organizzazione del movimento italiano di apostolato laico da costituire in altri centri parrocchiali. È opportuno osservare che, grazie anche alla politica del multiculturalismo, i missionari degli italiani hanno potuto agire con una maggiore libertà, ampliata dalla loro paziente politica del “passo dopo passo” e del “fare senza esibire” documenti pontifici. In questa maniera i parroci australiani, e i Vescovi, hanno potuto constatare che gli italiani non erano meno fedeli degli irlandesi, a patto che fossero messi nella condizione di poter vivere la loro religiosità alla maniera nella quale era stata loro trasmessa. Senza il freno dell’identità irlandese, la Chiesa d’Australia avrebbe potuto sbocciare con maggior freschezza e vigore. Allo stesso tempo i cattolici italiani d’Australia hanno dimostrato che la fede dovrebbe portare a una religiosità più calda e umana e meno rigida e formalistica.
Entro lo schema di parrocchie territoriali “de jure” e nazionali “de facto”, alcune di esse sono divenute famose soprattutto per l’impegno sostenuto dall’Ordine dei Cappuccini e dalla Congregazione Scalabriniana, accreditata questa seconda anche di spettacolari interventi nell’assistenza degli italiani anziani fino al momento di andare oltre la linea di confine della vita. Quanti italiani avrebbero lasciato la religione cattolica senza l’aiuto dei sacerdoti italiani non si può certo stabilire, anche perché bisogna tenere in massimo conto la differenza tra fede e pratica esterna della religione. Ad ogni buon conto, l’importante è che essi sono ormai parte viva dei circa 6 milioni di cattolici che costituiscono oggi la Chiesa australiana. La maggior parte non è praticante, tuttavia nei censimenti, alla voce “religione di appartenenza” risponde “cattolica romana”.
Rapporto Migrantes Italiani nel mondo 2007 a cura di A. Lorigiola

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